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Circa 180 secondi è il tempo di attenzione che il cliente concentra sul menù. Per il ristoratore svolgono un importante ruolo quei 3 minuti: deve fare in modo che non vengano ordinate troppe pietanze diverse nello stesso tavolo.

Buona parte delle scelte a tavola si gioca in questo tempo: quando non si riesce a rendere attrattivi i piatti con alta profittabilità economica, il cliente tenderà a preferire quelli che costano meno o che già conosce.

Il menù è uno strumento di vendita che può far aumentare i profitti del locale ottimizzando il lavoro in cucina, un modo per raccontare cosa si vuole trasmettere al cliente e come. Ciò che viene scritto al suo interno non è l’unico aspetto rilevante a cui prestare attenzione perché i consumatori osservano anche altri elementi:

  • le soluzioni grafiche: Il colore aumenta il riconoscimento delle parole e la comprensione dei testi. La presenza di grassetti e corsivi in posizioni strategiche può attrarre lo sguardo del lettore verso una determinata portata.
  • la descrizione dei piatti: sempre più spesso si osserva il paese di origine o la distanza dalla zona di produzione degli ingredienti prima di scegliere un piatto. Viene maggiormente apprezzata la segnalazione di prodotti a denominazione di origine protetta (D.O.P.) o ad indicazione geografica protetta (I.G.P.).

Menu Engineering: guida l’ordinazione dei piatti

Negli anni ‘80 Michael L. Kasavana e Donald J. Smith, due esperti studiosi di processi psicologici a tavola, hanno sviluppato una tecnica che studia i meccanismi mentali finalizzati alla redazione di un menu: il Menu Engineering o l’ingegneria dei menu. Essi dimostrarono che progettando adeguatamente il formato del menu, la sua grafica, il posizionamento delle pietanze e la scelta del tono di voce per descrivere i piatti, si riuscivano a influenzare le comande.

Per analizzare un menu utilizzando questa tecnica bisogna considerare due variabili: la popolarità (la frequenza di vendita dei piatti) sull’asse delle ordinate e la profittabilità (il grado di margine di contribuzione di ogni piatto) sull’asse delle ascisse.

È possibile avere una situazione d’intervento più chiara sia a livello di produzione che di descrizione del menu suddividendo i piatti in quattro categorie:

  1. Stars (con grande popolarità e un alto guadagno)
  2. Plowhorses (con alta popolarità, ma un basso margine di contribuzione)
  3. Puzzles (con bassa popolarità e un alto margine di contribuzione)
  4. Dogs (con bassa popolarità e un basso guadagno)

Non è sufficiente puntare solo sui piatti “Stars” mettendoli in evidenza o formando il personale affinché ne vendano di più, occorre anche intervenire sugli altri. Ad esempio si potrebbe alzare il prezzo di vendita e ridurre il food cost sui piatti “Dogs”, cambiare il nome poco attrattivo aumentando la qualità dei prodotti o cambiando la preparazione dei piatti “Puzzles”, ridurre il food cost usando ingredienti meno dispendiosi spostando la posizione dei piatti “Plowhorses” (Cavalli di battaglia) nel menu.

I 6 errori da evitare nella progettazione

Il menu comunica il rapporto tra prodotto, territorio, creatività dello chef e trasmette lo stile del ristorante. Per rendere maggiormente visibili i piatti più profittevoli, aumentandone la probabilità di acquisto, riassumo gli errori più comuni da evitare nella progettazione del menu:

1 – Sigillare i fogli del menu nelle buste di plastica

Un’abitudine antigienica che esalta la bassa qualità del ristorante.

2 – impaginare il menu inserendo le immagini dei piatti

Riducono l’effetto sorpresa del piatto e richiamano lo stile turistico. In Giappone è una pratica utilizzata per aiutare i commensali non giapponesi a poter scegliere con più consapevolezza.

3 – Allineare i prezzi

Evita che il cliente svolga una comparazione dei piatti, prevalentemente sul costo, senza percepire il valore degli ingredienti.

4 – Mettere il segno di valuta (euro €)

I piatti più cari dovrebbero essere posti per primi o nelle aree più visionate dal cliente. Conviene scegliere caratteri piccoli eliminando la virgola dal prezzo dei piatti per far percepire il prezzo più basso (1450 è meglio di 1.450). A volte viene eliminata l’intera voce del prezzo nei ristoranti con la formula “All You Can Eat”.

5 – Proporre un menu senza prezzo dedicato alle donne

Ti posso assicurare di aver ricevuto questa richiesta che oggi definirei sessista, non riduce affatto l’eventuale imbarazzo sulla scelta delle pietanze.

6 – Indicare troppi piatti in carta

Secondo il paradosso della troppa scelta quando abbiamo tanti prodotti rinviamo la scelta o non decidiamo affatto. Per far comprendere l’attenzione alla qualità del prodotto e alla sua freschezza non occorre esagerare con il numero di portate perché un sovraccarico decisionale (più di 7 piatti) ridurrà l’atto di acquisto.
Il professore John Edwards della Bournemouth University ha stimato che la condizione ottimale sarebbe quella di inserire 7 opzioni al massimo per gli antipasti, 10 piatti principali e 7 dessert per rendere più facile la scelta ai commensali.

Il posizionamento dei piatti nel menu

I clienti reagiscono ai layout di menu in modo differente. Fai attenzione ai “Sweet Spot” ovvero quei punti dove l’occhio del cliente si sofferma nel momento in cui prende in mano il menu.

Nel caso in cui sia scritto su un foglio la zona che verrà letta per prima è la fascia centrale, poi il percorso visivo si sposta verso l’alto e dopo scenderà in basso. La configurazione del menu a un’unica faccia indica un’esperienza culinaria leggera, le persone prendono velocemente le decisioni, ma si limitano nell’ordinazione.

Nei menu a due fogli il cliente tende a osservare la zona in alto a destra, poi si sposta verso sinistra per ritornare a destra sotto l’area che ha visto per prima. Il menu a due facciate è più facile da leggere ed evoca un’esperienza culinaria completa.

Infine la ricerca di Koert Van Ittersum e Brian Wansink dimostra quanto sia importante la dimensione del piatto nell’influenzare i comportamenti di consumo a tavola.

Partendo dall’illusione di Delboeuf secondo la quale due cerchi identici inseriti in due circonferenze di diametro diverso sembrano avere dimensioni diverse. Quello inserito nella circonferenza maggiore viene percepito come più grande.

Lo stesso principio si applica al contenuto del piatto: a parità di cibo, il contenitore maggiore sembra più vuoto. Ciò alimenta la tendenza inconscia a riempirlo, a dispetto della reale intenzione di non eccedere a tavola. La fame incide solo in una certa misura sui consumi alimentari.

Riassumendo…

Nella progettazione del menu occorre essere consapevoli di quali portate abbiano la maggiore capacità di creare margini e quelli che impattano sulle perdite, specialmente se il prezzo può essere variato in alto o in basso. Per questo suggerisco di valutare il successo di ciascun piatto e la frequenza di scelta negli ultimi mesi al fine di posizionare al meglio i piatti maggiormente profittevoli.

La circonferenza del piatto funge da guida per l’occhio mentre si dosa il cibo e ci porta a trascurare i buoni propositi alimentari. Lo studio dei professori Koert van Ittersum e Brian Wansink, noto sin dal 1865, suggerisce l’adozione di piatti e vassoi più piccoli per ridurre anche gli sprechi alimentari. Si tratta di un tema importante che affronterò nel prossimo articolo mostrando esempi di nudging.

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